La Scuola di Emanuele Pirella: non solo questione di 'peli'
03/03/2008
L’obiettivo era chiaro, fare scuola. La tentazione altrettanto, occuparsi di clienti top, dalla moda al design. Realizzato il primo, evitata la 'nicchia' della seconda. Perché anche nel lusso l’importante è innovare. E perché per comunicare il cashmere devi saper dare parola a un dado. Con un punto di forza. Il mix. Tra print e new generation. Che è anche concorrenza. Con a vincere una formula. Lo spiegano a youmark tre dei soci fondatori di La Scuola di Emanuele Pirella: Nicoletta Verga, Lele Panzeri e Giorgio Gorla.
Di scuola Lele Panzeri ed Emanuele Pirella ne avevano fatta già tanta nel corso del loro lavoro. Ma nel 2000 l’idea fu di istituzionalizzare la funzione. Ne nacque un’agenzia, fucina per giovani talenti.
Perché nulla può più della bottega, del lavoro sul campo. Con la formazione universitaria e didattica a peccare di teoria e parzialità. In un mestiere in cui la pratica è tutto.
Per ‘alunni’ e insegnanti. E’, infatti, dal confronto tra print e new generation, tra vecchio e nuovo, tra esperienza e ingenuità, che nasce il meglio. Talvolta mixando, altre mettendosi in concorrenza. Sempre, facendo vincere la formula. Che è poi è un preciso posizionamento, presidiando una ‘zona’ di mercato vergine, cui nessuna agenzia aveva ancora pensato.
Integrazioni e cortocircuiti. Piacevoli. Sfociati nell’allargamento del portfolio clienti, eludendo il rischio di fossilizzarsi sul lusso. Che per un’agenzia che non crede a specializzazioni e ghettizzazioni sarebbe stato un po’ morire.
Così, accanto all’entrata di clienti come Conai e Consorzio Acciaio, il futuro parla dell’impegno per nuove acquisizioni, pur consolidando il successo delle collaborazioni di sempre. Come è accaduto con Loro Piana. Dimenticandosi per un attimo dei tessuti e puntando tutto sugli abiti. Con una comunicazione che li nega in nome dell’immaginazione, attraverso la desiderabilità del bianco.
O con Krizia, per la linea taglie forti. Eliminando l’ipocrisia di modelle ‘in carne’, perché tali non sono mai, per far riflettere, raccontando la bellezza delle rotondità. ‘Come sarebbe il mondo senza curve?’ una domanda svelata da metafore visive. Come quella dei chicchi d’uva quadrati e le molte altre che in otto anni di collaborazione, con un’uscita a semestre, hanno dato vita a una mostra, rivelando edito e inedito nell’omonimo Spazio.
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