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Conviene ancora essere marca?

04/03/2008

Bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, con le opportunità a bilanciare i problemi. Essere marca oggi. Difficile. Nella necessità di assecondare inserendosi nei cambiamenti. Dunque risorsa, via per una stabilità più libera dal prezzo, ma anche impegno, fatica. Etica. Mentre la situazione economica prelude alla recessione. Con le decisioni americane post 11 settembre colpevoli delle grandi crisi mondiali. Ma mentre lì si decide, con previsioni ottimistiche già per fine anno, da noi è immobilismo. Non solo in Italia, ma in tutta Europa. Intanto Montezemolo, pur chiamandosi fuori da logiche di partito, affonda in politica presentando il decalogo Confindustria. 

L’esigenza maggiore è la governabilità. Che non a caso apre il decalogo presentato ieri da Luca Cordero di Montezemolo definendo la posizione Confindustria, di cui è presidente, almeno fino a maggio. Lo stesso elenco di punti che ha inaugurato nel pomeriggio l’assemblea pubblica Centromarca, a Milano, quest’anno in onore di Ernesto Illy

A seguire, risanamento dei conti pubblici, riduzione delle imposte, lavoro, crescita come bene comune, se dal 1992 ad oggi l’Italia fosse cresciuta come la media europea, avrebbe generato 225 miliardi di euro in più, per la collettività. Semplificazione amministrativa, energia. Oggi il nostro paese la paga il 60% in più dei francesi e il 30% degli altri. E ambiente, infrastrutture, perché andare da Milano a Venezia non può essere come arrivare a New York. Istruzione e università. Abbiamo una mobilità sociale che ancora non si è adeguata al mondo. Con difficoltà per il figlio di un operaio ad ambire ad altro, mentre i professori vengono ancora premiati per anzianità, non per merito. Investimenti in ricerca e innovazione, attenzione al Mezzogiorno (in molte regioni il valore dell’estorsione è pari all’1% del Pil). 

Senza dimenticare il dramma demografico italiano. Con la popolazione che non cresce e invecchia, deprimendo i consumi. Citando il filosofo francese Voltaire, Salvatore Natoli, ordinario di filosofia teoretica Università di Milano Bicocca, ricorda come il superfluo sia necessario. Solo in esso si sperimenta libertà. Il resto è mera serialità. Il punto è che oggi l’ampliamento delle possibilità e la crescente complessità, finiscono per trasformarsi in indeterminazione, dunque passività. 

C’è troppo da conoscere e da sapere e gli individui per difendersi ricorrono alla serialità. Spiegando con la pigrizia i consumi di massa. L’unica via perché essi non diventino consumi massificati è la creatività, la qualità. Non solo di prodotto, ma soprattutto di cognizione. L’accesso al sapere come condizione preliminare. Perché occorre innovare sul bisogno latente. 

Tropo spesso, invece, si asseconda il bisogno espresso, senza occupare uno spazio di differenziazione, di imprevedibilità. La marca, infatti, non è più la firma, ma il tasso di cognitività dell’azienda. Perché il prodotto è il suo valore simbolico. Possedendolo si deve sentire di valorizzare se stessi ed esserne felici. Tenendo in considerazione le potenzialità della rete, potenzialità cognitive che creano consumo. 

E il tema della felicità è cruciale. Perché i consumi di massa non realizzano. E’ la qualità a permettere di appagarsi senza esibirsi. L’acquisto per l’acquisto, infatti, genera infedeltà. Il bene accantonato, non utilizzato, porta a comprarne un altro, in un consumo che è fine a se stesso, che non fidelizza. I processi di fidelizzazione sono associabili solo a quelli di soddisfazione. Il problema, dunque, non è allargare e massificare i consumi, quanto differenziarli. 

Anche perché le persone non sanno valutare i loro desideri, i loro gusti e le loro sensazioni futuri. L’effetto che la ripetizione avrà sugli stessi. Studi condotti lo dimostrano, portando Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia 2002, a definire il comportamento di consumo frutto di un intreccio di aspetti psicologici, emotivi e cognitivi, ben oltre la pura convenienza economica. Quando si pensa a una cosa, la si desidera, si crede sia più importante di quello che effettivamente sarà. Ci si illude. Più aumenta l’attenzione all’esperienza, minore è l’illusione. 

Il tutto confluendo nella nuova definizione di marca. Che è anche dimensione etica, responsabilità, impegno. Di valori, promesse, significati. Nei confronti di tutti gli stakeholders. In rapporto di fiducia e di aspettativa che rende il contratto più vincolante che nel passato. Perché non si viene giudicati per quello che si dice, ma che si fa. Così la marca diventa più visibile, più direttamente vulnerabile al giudizio. Valore solo se sintesi di valori significanti.

 

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