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Il coraggio del cambiamento

28/01/2008

Questa è l’innovazione. E non per mutuare il titolo dell’omonimo incontro organizzato venerdì scorso a Milano da Coca Cola Hbc, ma per entrare nel vivo dei contenuti più interessanti da esso emersi. Perché al di là del dettaglio degli interventi, a vincere è un’universale verità. L’abisso che passa tra il dire e il fare. Con il piagnisteo per un’Italia alla deriva che, seppur a ragione, mostra la sterilità della denuncia senza alternative, al contrario dell’entusiastico trasporto di chi sul campo mette tutte le sue forze, perché le cose possono e devono cambiare. Per passare dalla fedeltà al merito, come suggerito dall’economista Giacomo Vaciago, di cui youmark vi propone l’intervento in video.

Molti sono stati i contributi che hanno meritato attenzione, chiamando in causa nomi come Vincenzo Perrone, professore ordinario di Organizzazione Aziendale, Dipartimento di Management Università Bocconi, Pierluigi Celli - amministratore delegato e direttore generale, Luiss, Vincenzo Cremonini - amministratore delegato, Cremonini Spa, Giuseppe Minoia - presidente, Gfk Eurisko, Gian Luca Rana - amministratore delegato, Pastificio Rana, Vincenzo Tassinari - presidente, Coop Italia, Giacomo Vaciago - economista, Università Cattolica di Milano, e lasciando a Dario Rinero - presidente e amministratore delegato, Coca-Cola HBC Italia, il compito delle conclusioni finali.

Perché l’innovazione è necessità, come sottolineato dalla relazione introduttiva di Perrone, insistendo sul coraggio, il cui opposto è la paura. Il cambiamento succede se si sa mettere in discussione, scontrandosi con un sistema di potere, ponendo resistenza. E’ la capacità di raccontare un futuro attraente, di guardare avanti, di non usare il passato come scudo, rifugio per non agire. L’innovazione non è l’idea, è la sua realizzazione. E’ creazione, ma anche combinazione inedita di quanto già esiste, schema che sfida l’ordine esistente.

Per nascere ha bisogno di una rete di rapporti. Tra persone, aziende, università, laboratori di ricerca. Per questo esistono contesti e mercati più o meno fertili, perché in diversa maniera capaci di favorire e motivare rapporti. Inutile dire che l’Italia, qui, fa ancora cilecca.

Ma chi sono gli innovatori? Persone non facili da gestire. Con ego smisurato, che non accettano consigli, dure da coordinare. Individui che mal sposano la rigidità delle aziende nostrane, trovandosi a maggior agio in contesti più destrutturati, aperti, flessibili. Perché di base mettono in discussione il modo in cui le cose vengono da sempre fatte. Sono eclettici, o comunque portati a mescolare conoscenze, dall’arte alla meccanica, dalla musica alla fisica, muovendosi in spazi intellettuali differenziati. Curiosi, ottimisti. Probabilmente un po’ ‘distorti’, come si deve essere per vedere la realtà oltre il razionale, permettendosi di osare. Soprattutto perseveranti, in grado di superare fallimenti e disillusioni, facendo anche della depressione un prologo alla rinascita, non una sconfitta.

Le aziende dovrebbero imparare a riconoscerli per garantirsi lunga vita, anziché cadere nella cosidetta miopia strategica. Che poi si traduce nel trascurare il futuro lontano, così come quello che non ci accade vicino e gli insuccessi. In poche parole, il non saper sfruttare l’esistente esplorando il possibile. E non è un caso che le aziende muoiano più di quanto riescano a cambiare.

Tra le cause che rendono difficoltoso il cambiamento, in Italia emergono la troppa burocrazia, le poche infrastrutture, il costo del lavoro, la sua scarsa flessibilità e sicurezza. Ma farcela è possibile, come dimostrano gli esempi di eccellenza, purtroppo tutti internazionali, che Rinero ha voluto nella sua conclusione citare. 

Da Ing Direct con il suo nuovo modello bancario, a Nike, che ha ridefinito il suo modello produttivo, integrandosi con partner esterni. Da Dell, che costruisce i computer solo su ordinazione, incassando prima di spendere, a Fedex, con i suoi 2 miliardi di spedizioni giornaliere e la sua flotta di 700 aerei, seconda solo ad American Airlines. E la lista potrebbe continuare, citando Zara, Intel, Ryanair, Lexus, Microsoft, Apple.

Sottolineando che l’innovazione di prodotto, pur se più diffusamente praticata, è anche la meno difendibile, quella che stenta a garantire successi di lunga durata. Per questo l’attenzione dovrebbe spostarsi a originalità differenzianti. Nella finanza, nella distribuzione, nelle modalità d’offerta. Adeguando all’obbiettivo l’intera impresa. Passando, cioè, da un sistema push a pull, da top down a botton up. Abbandonando un modello di controllo centralizzato per abbracciare una decentralizzazione modulare, il tutto in nome di un’organizzazione dinamica, a partecipazione allargata, focalizzata sull’innovazione, non più sull’efficienza.

Perché, per dirla alla Steve Jobs, "l’innovazione è la differenza che c’è tra un leader e un follower".






 

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