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Globalizzazione, la trasparenza che tutela

22/01/2008

Le due faccie della globalizzazione: i problemi e le opportunità. L’occasione per parlarne è stata la presentazione del libro ‘Le navi delle false griffe’ scritto da Rita Fatiguso, giornalista del 'Sole 24Ore', attraverso il dibattito organizzato ieri a Milano dallo stesso 'Sole 24 Ore', con la partecipazione di rappresentanti dei diversi soggetti in causa e, in collegamento da Roma, di Enrico Letta, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, di cui youmark vi propone il video dell’intervento.

Non poteva essere diversamente. A commentare un libro inchiesta che narra di dodici storie di globalizzazione raccontate attraverso la voce dei loro stessi protagonisti, sono scesi in campo i rappresentanti di tutte le categorie di soggetti coinvolti. Perché il fenomeno richiede una responsabilizzazione su più fronti. 

Non a caso, la presenza di Mario Boselli, presidente Camera Nazionale della Moda Italiana; Federico Vitali, presidente Faam e Confindustria Marche; Paolo Zegna, presidente Smi; Alessandro Ramazza, presidente Obiettivo Lavoro; Roberto Snaidero, presidente Federlegno-Arredo; Valeria Fedeli, presidente Sindacato Tessili Europeo Etuf; Giovanni Kessler, Alto Commissario per la lotta alla contraffazione. Nonché il contributo di Enrico Letta, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

Diversi i terreni di confronto. Con il problema della contraffazione ad aleggiare su tutto. Basti pensare che secondo l’Ocse ben 200 miliardi di dollari, circa il 6-9% del commercio mondiale, vive di falsi. Ma solo il 2% delle merci viene sottoposta a controlli. Anche se Kessler ha tenuto a precisare come la qualità degli stessi sia migliorata, portando a incrementare i sequestri. 

Assurda, poi, la contraddizione italiana, che ci vede il paese maggiormente contraffatto, ma anche quello che  produce contraffazione. Al punto che da noi il falso è ancora vissuto come fenomeno di costume, talvolta da esibire. Di qui la necessità di lavorare sul senso di qualità. 

Sulla trasparenza. Dei processi produttivi, delle composizioni dei prodotti, della provenienza. Come sostenuto da Umberto Eco, "dobbiamo porci il problema di certificare il vero" proprio per creare anche nei consumatori il senso della differenza. Nonché la consapevolezza che dietro un falso si nascondono anche problemi di sicurezza del prodotto, di lavoro nero, di immigrazione irregolare, di criminalità organizzata.

Ma non è facile riuscire a farlo senza che la volontà di trasparenza conquisti anche tutte le nostre aziende, quale strategia per il successo. Sintomatico, a proposito, l’episodio raccontato dalla Fedeli, inerentemente al suo impegno quale presidente del Sindacato Tessili Europeo Etuf. In pratica, una nota casa di moda, di cui non ha svelato l’identità, le ha confessato via telefono di non voler dichiarare la provenienza dei suoi prodotti, per paura che i consumatori non li acquistassero più.

La via per difendere il made in Italy, comunque, non è quella dei dazi o della chiusura, ma della trasparenza e della qualità, nel rispetto e nella tutela della proprietà intellettuale, nonché nella definizione di regole comuni e internazionalmente riconosciute cui attenersi. 

Dall’India alla Cina, a tutti i nuovi Paesi emergenti. Definendo sanzioni ragionevoli, dunque applicabili, e allargando anche alla contraffazione gli stessi strumenti utilizzati per combattere la criminalità organizzata, anziché riferirsi a quelli risalenti agli anni ’30, che facevano rientrare questi fatti nei ‘reati di strada’. Senza dimenticare che molta della contraffazione in circolazione in Italia proviene proprio da noi.

E non è la sola a creare problemi ai nostri brand. Sempre più diffuso, infatti, è il ricorso all’italian sounding, ossia dell’appropriazione dello stile italiano per caratterizzare prodotti che di nostrano non hanno nulla. Un po’ come è capitato alle pizzerie nel mondo, che oggi non sono quasi mai di proprietà di italiani, pur sbandierandone l’appellativo in insegna. Per questo servono regole per cui nessuno possa accreditare sotto il nome di un prodotto non italiano il riferimento a nostre città, piuttosto che della nostra bandiera, o a qualsiasi simbolo faccia presupporre la provenienza peninsulare.

Le nostre aziende devono concentrarsi sulla ricerca di un’eccellenza distintiva. Per creatività, processi produttivi, innovazione, qualità, rispetto delle regole, unione e rapporto con i lavoratori, trasparenza verso i consumatori. 

Inoltre, occorre educare all’originalità. Perché solo una competizione basata sulla qualità sarà sicura e sostenibile, non solo rispetto ai problemi ambientali, ma anche in riferimento ai temi del lavoro. Un operaio in Cina guadagna oggi mezzo euro l’ora. Degli 800 milioni di lavoratori cinesi, poi,  solo il 16% avrà una pensione.

Il mercato globale, comunque, ha bisogno di mobilità. In Italia il problema della scarsità di figure professionali poggia, oltre che sull’aspetto qualitativo legato alla scarsa frequentazione di determinati percorsi formativi, su ragioni demografiche. Il tasso di natalità da noi è bassissimo. Nel 2050 si stima che dai 50 milioni di abitanti il nostro paese passerà ad appena 38. 

Ogni anno vanno in pensione circa 700mila lavoratori, contro i 400mila giovani che iniziano. Un saldo negativo di circa 300mila unità e che, coincidenza vuole, finisce per eguagliare il valore delle domande presentate agli sportelli dell’immigrazione. Chiamando in causa il problema della malavita legata alla clandestinità, che osteggia una mobilità trasparente.

 

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