La miopia di chi, vedi Marchionne, guarda solo ai costi non è via di innovazione e crescita
27/10/2010
E nemmeno strategia per decretare la nuova leadership occidentale. Che mai quanto ora dovrà essere giocata sulla supremazia culturale, antropologica e filosofica. Perché il lavoro non è solo variabile economica, ma sintesi umanistica, e i nostri prodotti non devono competere sul prezzo puntando tutto sul taglio dei costi. Serve l’ambizione di far aumentare i profitti. Il che significa coltivare talenti. Motivarli. Ma in pochi ne sono capaci. Sergio Marchionne compreso. Sembra, infatti , che le recenti esternazioni rese dall’ad Fiat nella trasmissione di Fabio Fazio, la scorsa domenica (“senza Italia faremo meglio”), rappresentino l’essenza di una miope visione. E anche di un modo sbagliato di vivere e interpretare la globalizzazione, che è opportunità per articolare in modo diverso la propria responsabilità sociale a seconda del luogo di riferimento e del suo ciclo economico. Non rincorsa al risparmio. Il tutto in nome di un nuovo ‘rinascimento imprenditoriale’.
Sottolineando la basilare differenza tra costruire e creare. Solo nel secondo caso, infatti, si inizia ad amare il progetto da subito, prima di vederlo finito. Che equivale a rischiare. Facendo riferimento alla propensione tipica dell’imprenditore (che intraprende prima di sapere come andrà a finire), unitamente all’innovazione che lo contraddistingue e all’arte della combinazione (imprenditore non è colui che punta a massimizzare il profitto. Quello chiamasi speculatore), del coordinamento.
Che per modalità può essere di due tipi. Tecnologico (incontro di braccia) e strategico (incontro di menti). Il primo si rifà alla teoria taylorista, per cui perché l’organizzazione funzioni ognuno deve conoscere a priori tempi e modi del suo ruolo e di quello altrui. Nel secondo, invece, occorre condividere le ragioni del proprio compito, sorgendo immediato il tema della motivazione.
Distinta in tre tipologie. Estrinseca (ossia dettata dalla remunerazione), intrinseca (soddisfazione personale, realizzazione, dignità) e trascendente (si è appagati dal produrre effetti esterni positivi. Per l’ambiente, la collettività, il territorio).
E qui cade l’asino. Perché molto dipende dalla capacità di capire, di intuire di che pasta è fatto il nostro management, i nostri dipendenti (ovviamente nella medesima persona convivono tutte le motivazioni, occorre però stabilire in quali percentuali). Ed è quanto i curriculum vitae non dicono, seppur decreterà, o meno, il successo della squadra. Mettere vicino persone che condividono la stessa visione del mondo, questo è l’obiettivo che alza la produttività. La gente felice, infatti, innova, perché comunicando la propria conoscenza la diffonde. Senza temere ritorsioni (coloro che pensano solo alla performance quale contropartita alla retribuzione sono portati invece a prevaricare pur di arrivare allo scopo. Anche a costo di tacere i successi, le idee, la creatività dei membri del proprio gruppo, dunque lasciando che si sprechi talento e conoscenza).
In coloro che hanno motivazione estrinseca, il salario resta valore motivante e, in quanto tale, deve essere maggiore al così detto salario di riserva (ossia a quanto si prenderebbe cambiando lavoro). Nelle altre tipologie di motivazione, invece, a mediare la relazione è la cosiddetta remunerazione intrinseca, ossia il grado di soddisfacimento. Intuitivo capire come agire sul solo valore del salario significhi attirare persone orientato a scambiare prestazione per denaro. Punto. Viceversa, individui che interiorizzano il proprio ruolo.
Ma agire sulla soddisfazione non è facile. Essa dipende dall’equità, ossia meritorietà (non meritocrazia, che nell’accezione aristotelica è anticamera della dittatura), dunque dare a ciascuno il giusto. Dall’investimento in capitale umano (che significa rendere le persone più appetibili anche per il mercato esterno, rischiando pure di perderle. Ma prevalendo in chi viene formato e aggiornato in tal modo fedeltà e reciprocità, volendo restituire quanto avuto). Dalla responsabilità sociale.
Disegnando così quella che sembra essere l’unica via per la rinascita. La valorizzazione della persona e del lavoro, infatti, è strumentale a una triplice fioritura. Dei soggetti coinvolti (perché vi siano vite professionali degne di essere vissute), dell’impresa e del sistema paese.
Di questo si è parlato ieri a Milano nel corso del primo degli eventi che ha inaugurato il progetto adrianolivettiannouno (ciclo di incontri ideato e promosso dall’Associazione Vita Eudaimonica per diffondere e trasmettere l’esperienza e la modernità della filosofia d’impresa olivettiana). 'Il ben essere della persona come valore strategico intangibile'. Un tema approfondito grazie agli interventi di relatori come Salvatore Natoli, filosofo; Alberto Peretti, filosofo e presidente associazione Vita Eudaimonica; Stefano Zamagni, economista; Alberto Camuri, consulente organizzativo Valyou. E al racconto delle case history, italiana e brasiliana, Volvo Trucks (ascolta l’intervista fatta da youmark al marketing communication manager Cristina Gmeiner), preceduta dall’introduzione dell’ad Marco Lazzoni.
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