Adv, sei meno meno a quella italiana
05/10/2007
Di certo non entusiasmante. In Italia la pubblicità che emerge è quella che ha più soldi da spendere per accaparrarsi Grp. Sono solo il 15%, infatti, le campagne che ‘escono dal mucchio’ e non sempre per capacità. Ben due su tre nemmeno si ‘connettono’ al brand. Una su tre è addirittura fuori strategia. Il nostro stile, poi, tiene stretto Carosello, ricercando la storia, l’intrattenimento. Youmark ne parla con Salvatore Ippolito, head of clients Millward Brown Delfo.
La nostra pubblicità arriva appena alla sufficienza. Il 54% delle campagne non è inequivocabilmente collegato al brand, il 33%, poi, è addirittura fuori strategia. Solo il 15% riesce a emergere dalla ‘marmellata’. A dirlo è un’analisi condotta da Millward Brown Delfo su 1.200 campagne italiane dal 1989 a oggi, che nel mondo diventano 46.000.
E gli esempi non mancano. Dalla più recente ‘Anorexia’, di cui i più non sanno citare il nome del brand protagonista, alla passata ‘Fiat-buonasera’, diventata tormentone collettivo distogliendo interesse dalla marca di riferimento. Perché, ed è fondamentale, la pubblicità deve fare vendere, raggiungere gli obiettivi di business. Dunque intrattenere ed entrare in comunicazione con il consumatore, ma anche rappresentare sinergicamente la strategia ed essere inequivocabilmente ‘accoppiata’ allo specifico brand-prodotto.
L’arco temporale di riferimento, da fine anni ‘90 ad oggi, è così ricco di rivoluzioni da sembrare impossibile che l’advertising italiano non abbia fatto altrettanto. Cos’è successo?
“E’ ovvio che la situazione sia migliorata, ma non come dovuto. Il nostro indice di sintesi, Awareness Index, nella media Italiana vale appena 4, in Inghilterra è pari a 6. Più grave il fatto che proprio attorno al 4 si abbia il maggiore affollamento. Significa che l’appena sufficiente capacità di emergere è prerogativa condivisa. Non a caso, per farsi notare, si spinge sui Grp, con inevitabile incremento dei costi”.
Quindi, qual è la soluzione?
“Tutti i soggetti coinvolti devono ripensare il loro lavoro, puntando sulla creatività, ma anche sulla coerenza e sulla rilevanza, minimizzando il rischio. Per quanto ci riguarda, dobbiamo imparare a essere più sfidanti nel guardare i dati”.
Non facile parlare di creatività per chi testa le campagne. Non è, infatti, che la voglia di sicurezze finisca per penalizzare l’eccellenza delle idee?
“Innanzitutto non basta intervenire in fase di finalizzazione creativa. Occorre farlo prima, già in sede di definizione strategica, perché non tutte le strategie declinate in ambito comunicazione sono giuste per una specifica marca. In secondo luogo, la big idea da sola non basta, bisogna verificarne il legame con il brand, la coerenza con la strategia, la pianificazione media”.
C’è test e test. Concordate con l’affermazione e quali sono gli elementi che fanno la differenza?
“Basilare è il confronto con un database normativo importante, in modo da poter ragionare confrontando categorie, settori, prodotti, così come la stessa storia pubblicitaria della marca, per fare sempre meglio”.
Sono cambiati i gusti pubblicitari dei consumatori italiani?
“Siamo ancora dipendenti dall’intrattenimento, dalla storia seriale, dalla logica cinematografica. Anche lo humor ricercato dalle nuove generazioni non è quello dei doppi sensi francese e inglese, è più esplicito, in stile ‘commedia all’italiana’. Fatichiamo a buttarci alle spalle i retaggi del Carosello”.
Qual è secondo voi il Paese che ha capito meglio come ‘sfruttare’ le potenzialità della comunicazione, che sa rischiare ‘creativamente’ arrivando al successo?
“Sicuramente l’Inghilterra. Buono il numero delle loro campagne che arriva a 20, il top del valore dell’indice. In Italia non ce ne è una che arrivi a tanto, il nostro massimo è 15”.
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