Brand. Il suo successo è nella pubblicità
02/07/2007
Il Club dei Centenari adrenalinici.
Pubblichiamo la versione integrale della prefazione di Silvio Saffirio, oggi chairman Grey Group Italia, al libro ‘Il Valore del Brand’, promosso dalla Camera di Commercio di Torino ed edito da Priuli e Verlucca. Il racconto passionale e ironico di chi alla ‘creazione’ e ‘longevità’ dei brand ha dedicato la vita. E che, nonostante tutto, riesce ancora a dire ‘ne è valsa la pena’, sostenendo siano essi stessi un valore, anzi, il solo autentico valore intellettuale e finanziario di un’impresa.
Entrato giovane nell’avventura di una generazione di comunicatori che ebbe in sorte di inventarsi il proprio lavoro e scriverne le regole, ho ricevuto da un 'mestiere' che mi ha preso e dato molto, anche un gran numero di occasioni per metter mano a un marchio, a un nome, a un brand.
Occasioni di creare qualcosa di non effimero come appunto è un brand, destinato a sfidare il tempo, a lasciare un segno, a durare oltre noi e i nostri stessi committenti.
Occasioni – ansiogene, per questo stesso fatto – di poter creare un sistema di pensiero, quasi una nuova, pur piccola, civiltà fatta di postulati, segni, stili, cromatismi, principi, linguaggi, anche musiche, regole, discipline, obbedienze, idiosincrasie. Occasioni di dar vita a una visione del mondo nella quale infiltrare surrettiziamente anche la mia: una sorta di intellettuale 'interesse privato in atti di ufficio', non censurabile né perseguibile a norma di legge.
Un brand e il suo sistema somigliano molto ad una visione del mondo, a una ideologia. Talvolta perfino a una 'religione': integralista, esclusiva, competitiva, auto-riferita, a suo modo fanatica e intransigente. Alcuni dei brand ai quali ho lavorato vivono tuttora, altri sono in declino, molti sono scomparsi. A quali brand ho lavorato? Non è di stile parlarne; qualcuno è presente anche in questo libro e curiosamente si tratta di due casi di restyling di marchi storici che hanno superato entrambi il secolo di vita. L’auto-citazione mi serve essenzialmente per sostenere che i brand, per perpetuare la loro sfida, spesso devono cambiare pelle, talvolta riportandosi, per così dire, modernamente all’antico.
Non ci si pone attenzione, ma tra tanti fenomeni di effimera durata, i brand sono tra le poche 'istituzioni' a fare eccezione. Alcuni del mondo bancario e assicurativo affondano come querce secolari le loro radici addirittura nel Rinascimento. Gli altri, fatta naturalmente eccezione per quelli scomparsi prima e per quelli sorti dopo, sono in massima parte nati intorno all’anno 1900. Insomma: molti brand hanno già 100 e più anni. Quante cose che sembravano sfidare i secoli sono invece finite prima e lasciamo perdere come. L’URSS è durata 74 anni. Mussolini tenne il potere soltanto per 20. Bonaparte durò 13 anni. Hitler 12.
Non è abusivo affermare che il brand è l’istituzione più longeva dell’Occidente, fatta eccezione per le istituzioni religiose, massime la Chiesa Cattolica. O per l’Impero Romano, altra istituzione in fondo ultramoderna. Un singolare 'Club dei Centenari', adrenalinici, tonici, abbronzati, lucidi di mente, elastici nei muscoli. Non basta: iperattivi, stressati, stressanti, competitivi, attaccabrighe, infaticabili pianificatori di progetti.
Sì, non c’è dubbio, questi brand centenari per diventarlo avranno fatto parecchi lifting, settimane in centri benessere, diete dimagranti, analisi e meditazioni sul senso della loro esistenza. Avranno anche sbagliato. Ma sono stati capaci di correggersi. Avranno tradito o distorto le potenzialità del brand ma si sono ravveduti. Sono ancora qui e ci saranno ancora.
Non tutti, Darwin docet. Solo quelli capaci di adattarsi e il miglior modo di mutare è rimanere flessibilmente fedeli a se stessi, perché in ogni brand c’è un DNA che stabilisce il massimo grado di apertura dell’ 'angolo genetico' ovvero ciò che il brand può fare e ciò che invece non può fare. Intuirlo, capirlo, gestirlo non è propriamente un lavoro, è un 'sacerdozio'.
Può sembrare peregrina la constatazione che precede, ma ritenendola nel fondo inoppugnabile, ho voluto offrirla al lettore, perché conferisce nuove dimensioni alla riflessione sui brand; la dimensione del divenire e quella di una sua misteriosa e non compiutamente definibile complessità. La stessa, forse, delle civiltà, della loro ascesa e caduta e talvolta delle loro inaspettata ripresa. Fattori che aggiungono al brand importanti e non ancora sondate sfaccettature, ma soprattutto indirizzano meglio all’idea che il brand sia esso stesso un valore, anzi, il solo autentico valore intellettuale e finanziario di un’impresa.
Immagino le reazioni che questa affermazione può suscitare. E il fattore umano? Conta nulla la capacità di fare, non valgono i brevetti? Gli stabilimenti? Gli impianti? L’organizzazione distributiva? La finanza? La risposta non è difficile ed è in forma di domanda: quanto valgono tutti gli asset di cui sopra senza il brand? Certamente meno del brand in se stesso. Perché il brand è la sintesi dei valori di un’impresa: del suo know-how, del suo saper fare, i suoi brevetti, i suoi progetti, i suoi impianti, le sue persone.
Togliete il brand e tutto risulterà disanimato.
Di passaggio, una piccola dimostrazione aggiuntiva. Anni fa si diffusero in Italia i discount e molti imprenditori dei prodotti di marca paventarono il rischio di una catastrofe epocale. Invitato a un convegno sull’argomento espressi i miei dubbi sulla preconizzata 'Apocalisse della Marca', sostenendo che vi era naturalmente la possibilità di sottrazione di significative quote di mercato ai prodotti di marca, a causa della politica di basso prezzo praticata dai discount e per la presenza di una domanda, concentrata particolarmente nelle fasce sociali a più basso reddito, di prodotti con prestazioni sufficienti e prezzi più favorevoli.
Aggiungevo che da un semplice store-check in un paio di discount non avevo ricavato la sensazione di rischio di morte della marca: semmai di una nuova prova della sua vitalità. I prodotti unbranded erano in realtà tutti marcati, sia pure con marchi di fantasia, un po’ troppo, bisogna dire, imitativi delle marche 'vere'. Ma la marca c’era. Non c’era scritto sull’etichetta semplicemente 'cotone idrofilo', 'mozzarella', 'acqua oligo-minerale' e basta come sarebbe piaciuto ai consumeristi duri e puri. C’era il brand - un brand di fantasia è vero - ma c’era. C’era la 'marca', il nome, il logo.
Quanto ai marchi di fantasia, quand’è che un brand esce dalla fantasia e diviene marca vera? Tutti i brand nascono 'di fantasia' - la fantasia di chi li crea, magari insieme all’impresa che li produrrà - e divengono veri con il trascorrere del tempo e l’affermazione di mercato.
Azzardavo due previsioni:
1) molti pseudo-brand presenti nei discount sarebbero divenuti tra qualche tempo dei quasi-veri brand di quella tipologia distributiva;
2) in ogni caso, vero brand sarebbe divenuto ben presto il nome della stessa catena di discount. Un brand che avrebbe significato: 'Cari amici, qui vendiamo prodotti efficienti a prezzi convenienti. È tutto'. Una filosofia di vita della marca distributiva suscettibile, a dispetto della spartana essenzialità del décor di quel tipo di distribuzione, di creare con il tempo un solido, piccolo legame, anche emotivo, con il consumatore.
Infliggere ora sadicamente un po’ di storia può disturbare la relazione con il lettore, ma non dovrebbe nuocere all’intera riflessione. Fatta eccezione, come dicevamo, per le 'istituzioni rinascimentali', banche e compagnie di as-sicurazione, i brand dell’industria e dei servizi nascono intorno al giro di boa del 1900. L’industrializzazione, l’ottimismo della borghesia, la Belle Epoque, la forza e la centralità europea non ancora offuscate dalla emergente potenza americana, fanno da sfondo al 'brand-baby-boom' del periodo. Un buon momento per nascere, complice anche lo sviluppo delle arti decorative, con il trionfo di quel Liberty che lascerà ampie tracce anche nell’estetica dei brand.
Malgrado i restyling non sempre accurati - quando non addirittura incolti e brutali - subiti da molte marche nel corso di un secolo tra i più ricchi di avvenimenti, sconvolgimenti e imbarbarimenti, molti brand, grazie alla loro lunga esistenza, riusciranno a farsi carico anche di una funzione insospettata: quella di portatori del patrimonio di memoria e testimonianza artistica espresso dai loro stessi segni.
In quel 1900 i brand nascono, quasi per partenogenesi, dal clima economico, politico, sociale e artistico del tempo, ma non obbediscono tutti alle stesse regole. E, soprattutto nel prosieguo, la vitalistica genesi dei brand dimostrerà di ispirarsi a molteplici schemi. Ecco una breve, personale, certamente non esaustiva, classificazione delle tipologie dei brand per completare questa digressione/riflessione storica e passare alle conclusioni.
1. In principio è il 'brand-patronimico'. Senza tanti fronzoli: la marca che si chiama come il Titolare. In un’epoca nella quale il ruolo sociale dell’imprenditore è fonte di orgoglio e i contratti si concludono a virili strette di mano, il 'brand-cognome' (talvolta nome e cognome) rappresenta la garanzia suprema, impegnando la firma del padrone. Non occorrono esempi, tanto numerosi sono i brand di questo tipo. Inoltre, essendo così personalizzati i loro brand, gli assenti si offenderebbero.
2. Poi c’è il 'brand-acronimo'. Caso paradigmatico: Fiat. Le iniziali di una ragione sociale essenzialmente esplicativa (Fabbrica Italiana Automobili Torino) si trasformano nel comando biblico della creazione. Azzardo un’ipotesi: Fiat come molte altre imprese coeve non viene, com’è noto, fondata da un singolo imprenditore, ma da un gruppo di soci. L’acronimo diviene così il compromesso necessario, virtuoso in questo caso, quando non è possibile dare alla società costituenda un nome individuale.
3. 'Brand-sigla'. I (numerosi) brand dove la sigla non aspira a divenire acronimo espressivo. Un esempio sarebbe SAI, ma essendo divenuta da qualche tempo “Fondiaria SAI”, mi fa comodo in una classificazione successiva, quella dei brand composti. Citerò quindi SKF, UTET, SEI. C’è poco da dire su una sigla, se non che è il tipo di brand più serioso, quello che nasce con meno 'effetti speciali', salvo che, conquistando il successo, da questo gli può derivare charme ed ecco la scarna sigla divenire un brand invidiato e citato dal mercato.
4. 'Brand-ragione sociale'. Tra le diverse categorie, la meno fantasiosa. Ci informa educatamente su che cosa fa un’impresa, senza neppure lo schiocco di una sigla o la magia di un acronimo felice. Ricorro ad un esempio significativo: Reale Mutua Assicurazioni. Accade tra l’altro con una certa frequenza che una ragione sociale sia composta da 3 parole. In questo caso l’ultima dice che cosa fa, la parola centrale ci dice in quale modo lo fa, ovvero in forma mutuale, ma grazie alla maestà di quel 'Reale', il brand-name spicca il volo. Non escluderei che sia proprio l’effetto dato dalla combinazione di 3 parole così geneticamente diverse, senza trascurare l’antica, suggestiva, complicatissima icona araldica del Regno di Sardegna, a dar luogo a un effetto di straordinaria rassicurazione verbale e visiva.
5. 'Brand-Frankenstein'. Variante e ibrido tra brand-sigla e brand-ragione sociale come ad esempio Comau e Iveco. Qui le prime sillabe della ragione sociale vengono assemblate - generalmente da un ingegnere che però ha fatto il liceo classico - producendo tuttavia qualcosa di nuovo nel suono e nella struttura con un’aura nero-bluastra di misteriosità tecnologica. Il creativo alla mia maniera viene d’abitudine categoricamente escluso dalla ricerca di questi nomi, poiché li sconsiglierebbe, se non altro per gelosia professionale. Ma il risultato, basandosi proprio sui due esempi citati, vale la contrizione, le scuse e le congratulazioni del creativo in parola.
6. Ed ecco i 'brand-toponimo'. Vale a dire i brand che prendono nome dal luogo di origine dell’azienda. A far esempi c’è il rischio di incespicare in molti brand scomparsi che per scaramanzia non vorrei citare. Ma è divertente notare che 2 brand torinesi della moda e del lusso derivano dal nome di sobborghi o frazioni di origine, un tempo molto separate dal centro urbano: Aurora e Superga.
6 bis. Abbiamo anche i 'brand-santità'. In gran parte sono quelli delle acque minerali, generalmente derivati da nomi di santi attribuiti alla fonte originaria e qui si aprirebbe un’ulteriore finestra su una interessante ricerca storica a metà tra misticismo e partite catastali che non è tra i compiti della presente pubblicazione. Basti l’accenno.
7. I 'brand-composti'. Costituiti cioè da due (generalmente) o più componenti coniugate, ma ancora individuabili. Esempi: Italgas o Italdesign-Giugiaro. Diverso è il caso Fondiaria SAI, abbinamento in sequenza alfabetica dei nomi di due primarie compagnie di assicurazione che costituisce una interessante, antesignana, ora attualissima variante 'da merger'. La tendenza di mercato del futuro prossimo offrirà all’osservazione sempre più numerosi casi. La combinazione dei componenti del nuovo brand, l’eventuale omissione di parti, l’ordine dei fattori (complice il provvidenziale ordine alfabetico) comunicheranno – oltre alla mission aziendale, – la rude realtà dei nuovi rapporti di potere interni.
8. 'Brand-sfida'. Il primo Novecento fu generosissimo di questi brand, incontinenti e guasconi per la maggior parte, espressi molto spesso in latino o in linguaggio volontaristico-arditesco- dannunziano-futuristico. Tra quelli di loro che sopravvissero alle vicissitudini storiche e di mercato giungendo fino a noi, è d’obbligo un esempio; uno solo, luminoso: La Rinascente. Firmato: Gabriele D’Annunzio. Giù il cappello, signori.
9. 'Brand-visione'. Si affermano soprattutto nella seconda metà del secolo scorso. Corrispondono all’esigenza di un mercato che da 'domanda' sta trasformandosi in mercato di 'offerta'. Non basta più offrire capacità industriali e prodotti conseguenti ai compratori divenuti frattanto consumatori; serve sedurli, farsi scegliere. Serve soprattutto fare in fretta. Non c’è più tempo per le normali fasi di avviamento di un’impresa, compresa quella della lenta, progressiva, fisiologica sedimentazione del suo brand. Occorre che anche il brand sia a pronta presa, possa imporsi all’attenzione, farsi amare e ricordare in tempi brevissimi.
La scelta del brand rimane come sempre appannaggio di imprenditori e top manager, ma la sua ricerca è divenuta lavoro da specialisti. Il brand dev’essere esclusivo e originale, circostanza resa vieppiù difficile dalla messa in movimento di tutto l’universo mondo, Asia compresa, alla ricerca di brand depositabili. Ma, soprattutto, il brand, essendogli ormai riconosciuto un eminente ruolo di comunicazione, dev’essere fin dal suo nascere suggestivo ed efficace, deve trasmettere al pubblico compressed files tutto quanto il messaggio della marca. Insomma su un brand nascente si depositano una moltitudine di aspettative, davvero non facili da soddisfare.
L’abbiamo già detto: il brand è l’impresa o se si preferisce l’impresa è il brand. Un valore immateriale, ma assai concreto in termini economici. Un vero e proprio, talora strabiliante, valore di bilancio.
Alcuni esempi in milioni di dollari: il brand Coca-Cola ne vale 67.000, Microsoft 56.927, General Electric 48.907, Disney 27.848, McDonald’s 27.501. All’ultimo posto della classifica attuale dei “100 Global Brands”, stilata annualmente dalla società specializzata Interbrand, troviamo Levi’s con un valore di soli (!) 2.689 milioni di dollari.
Rimane una domanda. Qual è la condizione essenziale perché un brand, adempiuti tutti i suoi doveri (prodotto, prezzo, servizio, distribuzione, innovazione) possa aspirare a divenire un brand di successo?
Spiace dirlo, visto l’evidente conflitto di interesse, ma la risposta è: pubblicità. Non 'comunicazione', termine corretto, ma divenuto generico e alibistico nell’uso. La pubblicità (che assomma oggi tutte le forme di comunicazione, incluse quelle sottili e tecnologiche) è il sangue che scorre nelle vene e anima il brand da qualcosa più di 100 anni.
Metà dei brand esaminati nel presente volume sono protagonisti rimarchevoli sul palcoscenico dell’advertising. L’altra metà opera - considerando la specificità dei suoi settori - con le sottili ecniche di comunicazione dei mercati di nicchia. Non c’è contrasto. Pubblicità sui mass media e altre forme di comunicazione più sofisticate e mirate, discendono tutte dal grande albero della pubblicità, della réclame, dell’advertising, nata anch’essa nelle adiacenze di quel fatidico 1900.
Ne è premio – e prova al tempo stesso – il fatto che in questo volume abbia il suo spazio anche il brand dell’agenzia di pubblicità Armando Testa, un’impresa Made in Turin che ha saputo creare e spingere al successo innumerevoli brand italiani.
I brand forse non sanno ancora di avere un grande debito verso la pubblicità e i suoi personaggi. I pubblicitari sono sempre più consapevoli di averne uno, forse maggiore, con i brand e i loro creatori.
Silvio Saffirio
Creativo della pubblicità
Credits Volume
'Il valore del brand'
Esperienze d’eccellenza delle aziende di Torino e Provincia
Camera di commercio industria artigianato agricoltura di Torino
Comitato di Redazione: Luigi Boggio, Silvio Saffirio, Ugo Volli
Segreteria Comitato di Redazione: Centro PATLIB - Camera di commercio industria artigianato agricoltura di Torino
Coordinamento editoriale: Alisei Comunicazione Srl - ali6@ali6.org
Da un’idea di Ruben Abbattista, Mariangela Ravasenga
Progetto e realizzazione grafica Leonardo Lucchini
Edizione Priuli & Verlucca
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