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Crisi: non fingiamo. Il problema sta anche nell’economia reale

24/10/2008

Un tessuto produttivo composto per il 98% di piccole medie imprese, a competere per il 60% del Pil, contro il restante 2% di grandi, non può che far riflettere. Perché, prescindendo dal finanziario puro, la nostra crisi parte proprio da lì. Dal controllo totale che quella minoranza finisce per avere sul resto. Soprattutto oggi dove chi non parla è morto. Perché significa disinteresse nel proprio interlocutore, che entro il 2020 sarà per il 75% colto. Dunque, comunicare con lui in senso orizzontale diventa obbligo. Con la misurazione che è già costante di lavoro, quantificando pure i danni del silenzio. Ieri, a Milano, in occasione della Conversazione Iaa sul rapporto tra comunicazione e crisi, youmark ha intervistato Attilio Redivo, amministratore delegato MediaCom, nonché relatore, assieme a Remo Lucchi, amministratore delegato Gfk-Eurisko, dell’incontro. 

Riprendiamo, sintetizzando, le fila delle cause. Mutui subprime a parte, infatti, il fulcro ha radici nella nostra economia reale. Pensateci. Il 2% di grandi aziende presenti ragiona con logica finanziaria, dunque di breve, strettamente connessa alla trimestrale di borsa, all’oggi per ieri. Il che entra in evidente conflitto con le visioni di lungo di cui ha bisogno l’impresa per tendere al così detto oceano blu. Ossia per potersi concedere la propria libertà strategica, distintiva e differenziante. Il breve, se non brevissimo termine, invece, costringe tutti al rosso. Dove la competizione è di prezzo e per garantire i ricavi si abbattono i costi. 

Vessate da tale logica, anche le piccole e medie imprese lottano al ribasso
, risparmiando ad oltranza, dalle materie prime al lavoro, a discapito della qualità. E, in particolare, a discapito del potere di acquisto di noi italiani. Infatti, il tutto si riversa a cascata sul reddito delle persone. Che consumano meno, dunque costringono le grandi aziende a diminuire i prezzi, innescando un circolo vizioso che porta al collasso. Appesantito anche dagli effetti della globalizzazione, con l’entrata in gioco dei paesi low cost. Mentre in Italia si continua a non permettere al piccolo di diventare grande. Dal fisco al sindacato, sembra esserci la cosciente volontà di soffocare la voglia di investire in innovazione, di fare il salto. 

Nel frattempo la società si trasforma. Siamo passati dal 16% di istruiti al 33% attuale, con stime del 75% entro il 2020. In poche parole, una rivoluzione. Che per prima coinvolge media e comunicazione. Perché l’identificazione su cui per anni ci si è abituati a fare leva, con messaggi calati dall’alto, non paga più. La gente vuole prendere parte a un dialogo orizzontale, nel quale assume posizione critica, individuale. Pretendendo qualche cosa in cambio della sua attenzione, fiducia, scelta, secondo una strategia win-win. 

E alle aziende non resta che crederci. Supportate dalla possibilità di ragionare gli investimenti sui risultati, garantendo misurabilità alle azioni. Il che significa anche quantificazione del danno delle non azioni. Perché è provato. A diversi livelli, con diverse intensità, ma la comunicazione funziona. Il punto è saperla fare.

 

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