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Dal media al contenuto

14/06/2007

Il media è finito, almeno nell’accezione più ‘business’ del termine. E se gli spazi si fanno ‘free’, a valere sono i contenuti. Siamo entrati in una nuova era: anarchica, perché non ci sono regole a priori. Solo una certezza: i giovani d’azienda sono pronti a osare più di quanto quelli della comunicazione sanno loro offrire.

“Tutto è ormai comunicazione. Basta guardare alla cronaca più attuale, alla politica. Persino la Francia, che tanto aveva criticato l’Italia lo scorso anno , ha giocato i momenti della corsa alle ultime presidenziali a colpi di comunicazione tra Ségolène Royal e Nicolas Sarkozy. Il punto, però, è capire cosa significa oggi comunicare”.
A sollevare la riflessione è Aldo Biasi, amministratore unico ed executive creative director della Aldo Biasi Comunicazione, agenzia da lui fondata nel 1999. “Le regole nascono sempre a posteriori. Era stato così anche per la pubblicità. La si è prima fatta, solo poi è stata regolamentata. Anche l’attuale anarchia è destinata a finire”. 

In genere quando si struttura una situazione, quando si definisce il suo regolamento, qualcuno o qualcosa finisce inevitabilmente per lasciarci le penne. In questo caso chi è maggiormente in ‘pericolo’?
“Il media. Lo spazio non è più importante, diventa gratuito, sovvertendo gli attuali modelli di business. A contare, infatti, sempre più sarà come lo si riempie. Saranno i contenuti. La tv generalista è morta. Possiamo fare finta di non essercene accorti, ma è successo.” 

Cosa significa tutto questo per la comunicazione e per la sua creatività?
“Uno stravolgimento dei linguaggi e dei modi. Cambia la psicologia umana con cui ci si confronta. Il riferimento non è più un comportamento passivo e in un certo senso censorio. Oggi non essere banale è un must. Devi creare trasporto, tensione, emozione. Perché hai a che fare con un pubblico selettivo, attento, protagonista. Insomma, la pubblicità è morta, al suo posto c’è la comunicazione". 

Qual  è la differenza?
"La marca va fatta entrare nella vita delle persone, va percepita. Non puoi usare lo stesso messaggio declinato su più media, perché devi piegare e plasmare i contenuti sulle sfumature del consumatore. Oggi è lui che comanda". 

Ma le aziende che dicono, hanno voglia di rischiare cambiando la loro comunicazione?
"Le aziende oggi sono molto più protagoniste del mondo della comunicazione che non in passato. C’è stato un cambio generazionale ai vertici di molte imprese italiane, la maggior parte dei product manager sono giovani. La differenza è che loro sono vissuti con la pubblicità. Non è come con i loro padri, ai quali siamo stati noi del mestiere a insegnargliela. Il nostro sapere non affascina più le nuove leve. Quello che cercano è altro, hanno voglia di osare". 

E'  il mercato della comunicazione a essere scarsamente reattivo?
"Il conservatorismo è una prerogativa del nostro Paese. Diventa però preoccupante quando è tanto diffuso anche trai giovani che lavorano nella comunicazione, quelli che dovrebbero trainare le nuove logiche. La mia generazione usciva dall’era del carosello. Ha osato, ha inventato la pubblicità. Oggi c’è meno coraggio, magari ci sono le idee ma è più forte la paura di perdere il posto, di non piacere al ‘capo’. Il problema è alla radice, a monte, a partire dalle stesse scuole specializzate, dai loro insegnati, che non scatenano la voglia di infrangere le regole, di provare, di inventare, che proseguono nel trasferire ciò che loro hanno imparato, senza chiedersi se ha ancora senso. Pensare che all’estero sono proprio i giovani a fare la differenza".

 

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