Tutti contro la generalista
28/02/2008
La tv tradizionale. E’ lei la più bersagliata. Vuoi per i suoi investimenti, che nonostante tutto continuano ad attrarre il 50% degli impegni pubblicitari italiani, vuoi perché sintomatica di un oligopolio da tempo sotto accusa. O ancora perché, come ovvio, nel proliferare di occasioni media, si riduce il tempo dedicato al suo ascolto e diminuisce l’efficacia dello spot. Nasce così la nuova tv. Iptv, digitale terrestre, satellitare, mobile, web. Tutte a puntare il dito sui contenuti. Che troppo spesso altro non sono che riproduzioni rimpaginate dei già esistenti. Identici. Medesimi. Con il business che grida vendetta. Youmark c’era alla tavola rotonda ‘La tv secondo noi’ organizzata ieri, in occasione del Cisco Expo 2008.
Chi è in crisi, il media, il contenuto, il modello, il telespettatore, l’utente, gli investitori? Probabilmente tutti. Con la tecnologia a offrire vie di fuga, pur senza risolvere realmente il dilemma. Perché è un dato di fatto che le cose siano cambiate. Chiamiamola ‘mediamorfosi’, rivoluzione web 2.0, era post mediatica. Quello che resta è la voglia di identificare nuovi modelli, soprattutto di business. Con internet a trainare l’evoluzione di nuovi rapporti con i contenuti, liberando ognuno da logiche di fruizione legate a tempo e spazio.
Always on. Sempre connessi. E qui sta il punto. Perché se il ragionamento si focalizza sulla nuova televisione è difficile stabilire se è così vero che la risposta stia nelle soluzioni sino ad oggi proposte. E lo dimostrano i numeri. Con l’on demand a convincere soprattutto i più assidui telespettatori della generalista e, sul fronte dei contenuti, a scegliere soprattutto gli stessi programmi delle maggiori audience in prima serata. Tanto da far pensare che sia il mezzo a trainare il contenuto. Mettendo in discussione non tanto l’offerta quanto la sua rigidità, in una generalizzata voglia di multimedialità, di alternativa.
Senza dimenticare che, per sua stessa definizione, la tv ha bisogno di condivisione, di numeri. Altrimenti non può esistere. E , per garantirle sopravvivenza, le alternative sino ad oggi note sono il ‘pay ‘e l’advertising.
Ammettendo, allora, che sia finita l’era di chimere d’ascolto nell’ordine del 25-30% di share. Che i 7 milioni di telespettatori di questo Festival di Sanremo, nonostante il calo rispetto ai 12 della passata edizione, appaiano come un irraggiungibile sogno, l’alternativa è scartare l’advertising a favore del pay. Così, anche solo 300.000 persone che pagassero 20 euro al mese, giustificherebbero un business.
Ma anche se a essere scelta fosse la via dell’advertising, sarebbe insensato continuare a ragionarne i parametri con logiche Auditel. Serve guardare a qualche cosa di differente. All’universo interattività, con il senso del ‘permission marketing’ applicato alla tv.
Sky ci ha pensato, destinando quattro canali all’approfondimento ‘commerciale’ e puntando ad incrementare questa offerta, appena risolti i problemi di banda. In poche parole, la possibilità per il telespettatore di accogliere l’invito del brand, staccandosi dal programma che stava seguendo o annotandosi di farlo appena preferisce. Entrando così nel dialogo con l’azienda inserzionista, che nei 30” del tradizionale spot non sarebbe mai riuscita ad approfondire a tal punto.
E’ indubbio, infatti, che molte marche si siano accorte che la loro comunicazione ha perso efficacia. Lo dimostrano le cifre. Un gruppo come Ogilvy ammette che il suo business è passato dal 70-80% di adv tradizionale a meno del 50%, in tutto il mondo. E la colpa non è dei film. La causa sta nei contesti. Con la necessità di raccontare una storia, di pensare ex ante a una big idea media neutrality.
Sotto accusa, dunque, non è la tv in quanto tale, ma il suo modello. Vedendo nella nascita di nuove collaborazioni tra agenzie e realtà che creano storie, programmi, spettacoli, una soluzione. In nome del branded entertainment. Con le agenzie ad allargare a nuove figure professionali e gli sceneggiatori a divenire terreno fertile di selezione.
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