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'Future of Print' a cura di Trendspotting Jwt
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La stampa tra ieri e domani

07/01/2008

Di sicuro è finito il tempo in cui la stampa dettava legge nell’universo dell’informazione. E il perché è sotto gli occhi di tutti. Web 2.0, blog, forum, motori di ricerca, cellulari, palmari, ne hanno accerchiato il ‘monopolio’, mettendone in discussione le leadership. Calo di lettori, minore raccolta pubblicitaria, ma anche crisi di credibilità, le conseguenze, non tutte imputabili alla sola innovazione tecnologica. Lo studio ‘Il futuro della stampa’ a firma Trendspotting Jwt, fa il punto della situazione, mostrando come, sapendole sfruttare, di occasioni buone per ‘l’inchiostro’ ce ne siano parecchie.

In due parole, possiamo appellare la situazione attuale quale ‘era della convergenza’. E non solo perché tutte le tecnologie tendono a dialogare sempre più tra loro, consentendo di essere sintetizzate all’interno di singoli device, ma anche perché, come sostenuto da Henry Jenkins, direttore del Comparative Media Studies program al Mit di Boston, nel suo recente saggio ‘Cultura Convergente’, edito in Italia da Apogeo, la nostra stessa cultura si sta muovendo in tal senso. 

Oggi informazioni, storie, racconti, rapporti, immagini, video, devono viaggiare sul maggior numero di media possibili. Perché altrettanti sono i modi con cui ognuno può entrare in loro contatto e, dunque, non si possono sprecare occasioni. Senza rapporti gerarchici tra fonti, tenendo conto della crescente partecipazione che il singolo può attivare, contribuendo alla creazione e diffusione dei contenuti culturali stessi.

Inutile negare che, tra tutti, la stampa è il media in maggiore sofferenza, perché quello meno indicato a creare interazione. Almeno come tradizionalmente inteso. Perché se capace di sfruttare appieno le opportunità offerte dalla sua integrazione con il digitale, allargando le vie del dialogo con i suoi pubblici, grazie a blog, forum, mobile, potrebbe trasformare il problema in opportunità, trovandosi insostituibile nella sua versione più tradizionale, ma al contempo in grado di attirare maggiori lettori, occupando tutte le diverse occasioni di contatto con il pubblico, oltre che servendo in modo creativo le esigenze di comunicazione dei brand. Dalla pagina stampa al video, dalle rp online al podcast.

Perché, a giudicare dai numeri, le cose così come sono non vanno poi bene. Secondo l’American Journalism Review la prima metà del 2007 ha visto i giornali nazionali Usa ‘bruciare’ il 5% dei ricavi, che a livello di profitti si traduce in una perdita nell’ordine del 14%. Cifre simili a quelle della recessione del 2001, ma in una situazione che non parla di crisi generalizzata, quanto specifica. I maggiori protagonisti del settore tagliano posti di lavoro. Ne sono esempio gli 800 ad opera della Time Inc , tra il 2006 e 2007. Focalizzando i maggiori investimenti online. Così come sta facendo l’advertising, alla ricerca dei numeri che la rete sembra garantire.

Ma non è solo l’innovazione tecnologica la causa. La stampa, infatti, ha per molto tempo goduto della fiducia dei suoi lettori, non altrettanto intatta oggi, dopo che si sono susseguiti diversi scandali a minarne la reputazione. Stephen Glass del 'New Republic' e Jayson Blair del 'New York Times', ne sono espliciti esempi. Così come Matt Drudge, grazie al fatto di essere stato il primo a dare la notizia di come 'Newsweek' mise a tacere la vicenda Clinton - Levinsky ha fatto sì che il suo Drudge Report sia divenuto (dati di agosto) il 7° sito più visitato negli Usa, battendo New York Times, Fox News e Washington Post.

E' anche vero che il settore ha visto la nascita di fenomeni di nuovo fervore. In Europa, infatti, la free press è stata linfa per il comparto. Secondo la World Association of Newspaper, in soli cinque anni la distribuzione è passata dal milione di copie iniziali a quasi cinque, con il merito di non rubare lettori alle testate tradizionali, quanto di trasformare in tali coloro che abitualmente non lo erano. Non a caso, grazie al successo, c’è anche chi ha visto la convenienza di passare dal gratuito al pagamento, come lo spagnolo 'Publico', venduto a 0,50 euro.

Tornando al web, non si tratta solo di ‘concorrenza’ pericolosa. Perché se è vero che il giornalismo subisce l’accerchiamento dell’informazione firmata web 2.0 e che l’online veste le speranze del business degli editori, altrettanto vero è che lo stesso web, ove ben articolato, permette anche di aumentare il numero dei lettori dei giornali. Perché il modello di business da perseguire è quello del multimedia storyteller, in cui la chiave del successo è il messaggio, non il media, facendo sempre attenzione a chi ci si sta rivolgendo, interrogandosi su chi ci stia ascoltando.

Perché la gente va dove sta a suo agio. E la pubblicità va dove c’è la gente, ricercando nicchie sempre più specifiche e puntuali con cui interagire. Così lo scorso settembre 'Vogue America' ha fatto il suo record di pagine pubblicitarie: 727. Sicuramente a testimonianza della sete di pubblicità stampa del fashion, ma soprattutto della validità di formule integrate. La maggior parte degli inserzionisti, infatti, ha acquistato anche la presenza online, mostrando in sfilata le proprie creazioni, oltre che promuovendole in un sito di vendita in rete. 

Senza dimenticare di tenere d’occhio la nuova tecnologia del ‘codice a barre’, attraverso cui, grazie al cellulare, cartelloni, pagine pubblicitarie, così come altri tipi di pubblicazioni, permetteranno di accedere direttamente all’informazione via web. In Giappone è già realtà, con i consumatori (una ricerca Sprint parla del 50% dei possessori di cellulari) che la utilizzano per differenti scopi. Dall’informazione sul valore calorico del Big Mac’s all’indirizzo del negozio più vicino dove acquistare l’ultima borsa del brand preferito. Sprint e Scanbuy  testeranno questo tipo di pubblicità il prossimo gennaio negli Usa.

Per concludere, vale la pena di sottolineare come, nonostante 'il web 2.0 sia responsabile di aver trasformato il mondo in un miliardo di verità personalizzate’, come sostenuto da Andrei Keen nel suo libro ‘The Cult of the Amateur’, analizzando anche i pericoli dei blog, spontaneamente si assiste alla voglia di ufficializzare le voci più determinanti, ricercando legittimazione. Così, ad esempio, Brian Stelter, fondatore del blog TvNewser, scrive di media digitali e Tv per il 'New York Time'. Anna Marie Cox, fondatrice di Wonkette, è Washington editor di time.com. Elizabeth Spiers, che ha fondato Gawker  scrive per Fast Company e 'New York Time'.

 

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