Crowdsourcing a due vie
18/12/2007
Un consumatore più esigente, informato, preparato, può mettere i bastoni tra le ruote al marketing. E non solo perché diventa sempre più difficile raggiungerlo e convincerlo. Ancora peggio, infatti, quando pretende di dire la sua a monte, volendo influire sulla stessa offerta. Come sembra promettere una nuova forma di ‘crowdsourcing’ per cui l’azienda, suo malgrado, dovrà confrontarsi con giudizi e ‘fatti’ della rete. Ma senza volontà di esternalizzazione, come accade nelle applicazioni più tradizionali di questo neologismo alla web2.0.
Il crowdsourcing, infatti, nasce come modello di business. L’azienda, invece di rivolgersi al suo interno o alla pletora di consulenti esterni di cui dispone, decide di far accedere al progetto la rete, ‘sfruttando’ il lavoro di volontari e appassionati. Una campagna di comunicazione, idee per nuovi prodotti, soluzioni packaging, ecc. Magari essendo anche disposta a riconoscere al prescelto un certo compenso. La cosa ha preso piede lo scorso anno, ed è di sicuro piaciuta. Almeno a giudicare dagli esempi visti susseguirsi in rete.
Tanto che gli stessi utenti hanno imparato a organizzarsi, come dimostrano realtà quali iStock, sito che raccoglie milioni di foto scattate da amatori e vendute a un costo che varia da 1 a 5 dollari. Un successo che ha portato la stessa Getty Images a scongiurare il rischio di cannibalizzazione acquistando l’intera proprietà del sito. O casi come zooppa, piattaforma dove le campagne pubblicitarie per promuovere un brand sono create dagli utenti. E sono gli stessi utenti a votare poi il filmato ritenuto migliore. Ai primi tre classificati premi in denaro.
Ma non è tutto oro quel che luccica. Perché, se apparentemente il meccanismo sembrerebbe non mostrare controindicazioni, soprattutto per le aziende, sul fronte utente la ‘promozione’ altrettanto scontata non è la promozione. Qualcuno, infatti, potrebbe obiettare circa l’eticità del comportamento, trattandosi di un modo come un altro per sfruttare abilità altrui, ottenendo servizi a basso costo, se non addirittura gratis.
E in realtà, se ci si pensa, tutto il meccanismo del web2.0 facilmente solletica simili argomentazioni. Perché qualsiasi community di successo crea il suo valore sulla partecipazione della gente, mettendo dunque a frutto quella che è un’esigenza spontanea di coinvolgimento e protagonismo attivo.
Al di là dei giudizi morali, ci preme piuttosto mostrare come, comunque, anche l’utente abbia l’opportunità di erigersi ad altra faccia della medaglia. Contro lo stress di prodotti che non piacciono, o meglio che non rispondono alle prerogative che promettono, ad esempio, è nato RedesignMe, sito olandese che garantisce a tutti facoltà di denuncia, rimettendo poi nelle mani della community l’obiettivo di ‘ridisegnare’ il prodotto o servizio. C’è chi si lamenta perché la sua autoradio ha solo sei canali, o chi non apprezza le scelte del suo orologio in tema di batteria. A dire il vero, però, non sono ancora molti i casi in cui vengono anche suggerite alternative di design.
Senza contare che il sito lascia i conti un po’ in sospeso, non chiudendo il cerchio, concentrato com’è sulle opinioni dei consumatori. Per questo merita di essere visto l’americano Satisfaction, che democraticamente apre l’accesso anche alle aziende, creando un terreno di confronto neutrale, nell’interesse del mercato. O almeno tale è l’intento. Visto che il tutto si basa sul credo che i fondatori ripongono nel ‘customer service’, quale ottica di marketing futura. Perché le persone che sono disposte a dedicare parte del proprio tempo per parlare di una marca, prodotto o servizio, saranno certamente più disposte a entrare in relazione con l’azienda pronta a interagire, fornendo tutte le risposte attese. Insomma, c’è da aspettarsi che il meccanismo non resti proprio disinteressato.
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