Sei in: Youmark > Rubriche > Hot Point
rss

Oggi l'editoriale lo scrivo io/ Marco Carnevale - La premiata ditta Tafazzi & Co.

13/12/2010

Visti i risultati di share ottenuti in tv dagli elenchi di Fazio, figurarsi se non mi accodo. Il mio elenco si intitola 'Elenco delle ragioni per cui anche in comunicazione il pesce puzza dalla testa'. E dice così.

1.
Le aziende e le istituzioni italiane non credono nella comunicazione, perciò nella loro stragrande maggioranza non investono i loro soldi in comunicazione. Perlopiù, si limitano a spenderli. Questo si verifica perché la maggior parte degli utenti italiani di pubblicità comunica solo o principalmente perché lo fanno gli altri. E da qui al comunicare come lo fanno gli altri il passo è breve. Come direbbe Mauro Masi, neppure nello Zimbabwe si registra un simile furioso accapigliarsi per un testimonial già associato ad altre - a volte innumerevoli - marche: a spettacoli del genere si può assistere solo da noi. Sarebbe una bella campagna, finalmente, per il nostro Ente del Turismo. 

2. Le aziende e le istituzioni italiane non credono nella comunicazione, quindi per farsi dar retta preferiscono martellare a suon di milioni di euro con la frequenza e l’occupazione militare dei media piuttosto che pronunciare dei messaggi capaci di farsi strada da sé. Nel mondo reale funziona diversamente. Quando andiamo a una festa cerchiamo qualcuno che ci interessa e tentiamo di approcciarlo con qualcosa di brillante, divertente, commovente o seducente che ci consenta di parlargli in realtà di noi stessi senza averne troppo l’aria; il tutto allo scopo di non essere già stati dimenticati e non ritrovarci respinti o peggio ancora confusi con qualcun altro in occasione di un successivo incontro casuale; che so, in un supermercato. Fra questa tecnica e quella pavloviana di ripetere a intervalli ravvicinati le stesse tre parole elementari mettendo ogni volta mano al portafogli c’è una bella differenza. La stessa che c’è fra Don Giovanni e Silvio Berlusconi. 

3. Le aziende e le istituzioni italiane non credono nella comunicazione, soprattutto perché non hanno mai capito a cosa serve davvero. La comunicazione (in particolare quando si tratta di pubblicità) non serve a sdraiarsi sullo status quo accontentandosi di aderire alla sua superficie; serve a innescare dei cambiamenti e delle rotture di continuità. Da ciò consegue, ad esempio, che una certa dose di spiazzamento del pubblico - senza il quale non si apre alcun varco in quella campana di vetro sorda e chiusa ad ogni stimolo esterno che è la sensazione di assoluta, soffocante familiarità perseguita in maniera ossessiva dalla maggior parte della nostra pubblicità - costituisce il presupposto necessario di ogni comunicazione minimamente incisiva e mobilitante. Imbarazzanti banalità come questa risuonano tuttora nelle nostre sale riunioni come inaudite bestemmie gridate a squarciagola nella Cappella Sistina. Eppure da noi di cosa c’è (o dovrebbe esserci) dentro la comunicazione semplicemente non si parla: né nei convegni, né sulla stampa specializzata e neppure - si direbbe - nei reparti responsabili della comunicazione delle medesime aziende e istituzioni. Altrimenti qualcuno si sarebbe accorto che un recente spot del Ministero delle Pari Opportunità accolto da una entusiastica ola bipartisan si concludeva con la frase 'Rifiuta l’omofobia. Non essere tu quello diverso'. Che è come dire: 'Rifiuta l’omofobia. Non fare il finocchio'.
 
4. Le aziende e le istituzioni italiane non credono nella comunicazione, perciò credono pochissimo anche nel rispetto dell’interlocutore; che costituisce la precondizione indispensabile di ogni comunicazione degna di questo nome. Provate per credere ad ascoltare i break di Radio 24, pieni zeppi - per ovvie ragioni - di comunicati B2B. Qui, nell’austera cornice dell’emittente della Confindustria, quasi tutte le aziende inserzioniste si sentono autorizzate a rivolgersi alle altre aziende con comunicati quasi sempre incentrati su insistiti doppi sensi pecorecci che le persone normali smettono di trovare divertenti fra la terza media e il primo liceo. O su atroci e sbilenche metafore calcistiche che farebbero tristezza a un raccattapalle ritardato. O su barzellettacce decotte già orecchiate mille volte al bar, ma mai sceneggiate e recitate così male. È uno spettacolo che desta serie preoccupazioni sullo stato di una nazione le cui élites trovano normale esprimersi come l’anello di congiunzione fra Bombolo e Gasparri, e il cui sistema industriale è abituato a rapportarsi al mondo esterno utilizzando un lessico che “sembra il frutto di cervelli rosicchiati dai topi” (questa è di Pasquale Barbella, ciao Pasquale). 

5. Le aziende e le istituzioni italiane non credono nella comunicazione, perciò in realtà non credono neppure nelle nuove forme di comunicazione. Basta un’occhiata ai siti nazionali per verificare che qui sono quasi tutti convinti che posizionare una sesquipedale scemenza su un banner molesto e intrusivo equivalga a trasformarla in uno scicchissimo messaggio interattivo. Spiacenti, ma una stupidaggine messa online resta una stupidaggine. Solo più dannosa di quelle off line. 

6. Le aziende e le istituzioni italiane non credono nella comunicazione, ma in compenso si fidano ciecamente di test che rappresentavano lo stato dell’arte delle ricerche motivazionali oltre cinquant’anni orsono (1957); quando non era ancora comparsa sulla terra alcuna generazione svezzata dai linguaggi dei mass media audiovisivi, né che considerasse scontata la natura partigiana della pubblicità essendo addirittura edotta dei suoi trucchi del mestiere. I focus group - questi grotteschi rituali che hanno cessato di essere una scienza nel preciso istante in cui il buon selvaggio oggetto di paternalistica osservazione è diventato lui stesso il padrone del gioco, e ha preso a scrutare a sua volta le aziende asserragliate al di là del finto specchio - sono di gran moda qui, nel quinto mondo della comunicazione. Il che, beninteso, non impedisce ai nostri inserzionisti - fra un recruiting di sedicenti responsabili d’acquisto professioniste dei panel e l’altro - di lamentarsi della scarsa vocazione unconventional delle loro agenzie. Sfacciati. 

7.
Le aziende e le istituzioni italiane non credono nella comunicazione, perciò esprimono in questo campo una domanda di profilo talmente basso da costringere l’intera industria del settore a un quotidiano downgrading di competenza, autorevolezza, proattività e perfino di semplice serietà. Tempo fa, tentando di spiegarmi come mai la riunione a cui stavo partecipando somigliasse così tanto a un film dei Monty Python, ho calcolato che la seniority complessiva dei due rappresentanti dell’agenzia era quasi tre volte superiore a quella dei cinque rappresentanti dell’azienda presenti: 40 anni di esperienza contro 14. Se si considera che questo fatale processo di dequalificazione - i cui effetti sono esposti tutti i giorni in tutti i media del paese - è in atto da molti anni, il fondo del barile non dev’essere lontanissimo. 

8. Le aziende e le istituzioni italiane non credono nella comunicazione, perciò credono di poterne acquistare di ottima da sconosciuti e a prezzi da discount. Gli stessi decisori seguirebbero lo stesso percorso per acquistare un’auto o un impianto hi-fi? Macché. Invece, per lanciare dei prodotti dal cui successo dipendono i posti di lavoro di migliaia di persone o per sensibilizzare la popolazione su emergenze che rischiano di far saltare in aria la convivenza civile, non ci pensano su due volte. 

9. Le aziende e le istituzioni italiane non credono nella comunicazione, perciò cooperano alacremente all’imbarbarimento del tessuto civile del paese e alla cronicizzazione del suo stato di crisi. Come tutti sanno, infatti, una buona comunicazione produce integrazione, spirito di cittadinanza, disponibilità al cambiamento, sviluppo della curiosità e della socialità, capacità e voglia di esprimersi anche attraverso le proprie scelte di rispecchiamento e di consumo. Mentre una cattiva comunicazione produce solo ciò che abbiamo sotto gli occhi: grettezza, demotivazione, ripiegamento, chiusura in se stessi, regressione, paranoia, sottrazione generalizzata di credibilità e perdita del senso. Fra l’altro, cosa spinga gli inserzionisti nostrani a ritenere che inondare il panorama urbano e mediatico di tonnellate di autentica spazzatura comunicativa recante la propria firma sia cosa meno grave e autolesionistica che dichiarare in pubblico di scaricare i propri rifiuti tossici in mare, resta un affascinante mistero. Purtroppo niente affatto glorioso. 

10. Le aziende e le istituzioni italiane non credono nella comunicazione, come del resto non sembrano credere moltissimo neppure negli investimenti produttivi, nella innovazione, nella meritocrazia, nella concorrenza leale e nello sviluppo sostenibile. In cos’altro credano, io in venticinque anni di mestiere ancora non l’ho ben capito. Spero che almeno lo abbiano capito loro.

Non ricordo se l’ho già detto: secondo me le aziende e le istituzioni italiane non credono nella comunicazione. Ma alcune di esse - pochissime - ci credono eccome. Qualora il nostro paese riuscisse ad evitare per il rotto della cuffia di essere annesso al Borneo, dunque, potremmo contare almeno su un pugno di cellule sane con cui tentare di ricostruire un organismo collettivo completamente diverso dalla carcassa su cui poggiamo i piedi: un paese ragionevolmente evoluto, dotato di una sana ossatura e di una decente capacità di interloquire con la realtà.
Che fatica, però. 

Marco Carnevale, direttore creativo McCann Erickson Italia

 

guarda tutti gli Hot Point


Giorno Settimana Mese