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Chris Anderson, direttore Wired US
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Speciale Iab: il web è morto. E’ internet che vive. Seppur in Italia il primo tiene, perché indietro

04/11/2010

C’era da aspettarselo. Il tema forte di questo Iab Forum non poteva che essere la provocazione lanciata da Chris Anderson, direttore Wired US (ascoltalo al microfono di youmark), a proposito dell’eventuale funerale al web. Con la risposta che guarda tutta al futuro, ossia al nuovo mondo internet che sfugge alle prerogative della rete che fu, conquistando nuovi media (tablet in testa), intrattenimento e gioco, smartphone. Guarda caso l’universo che sfugge dalle grinfie di Google e in cui chi lo propone può delimitare ad esso lo spazio d’azione del proprio utente (leggi il nostro speciale digital), garantendogli performance sicuramente migliori, soprattutto più intrattenimento, interazione, emozione e calore, oltre che business, visto che le app sembrano disegnare la strada del riequilibrio, consentendo remunerazioni appropriate. Seppur scatenando la discussione in tema di attentato alla democraticità della rete, visto che nel mondo già oggi si spende più tempo all’interno di piattaforme chiuse, ma è ancora un’altra storia. Essendo, infatti, il contesto un momento di incontro tra operatori del mercato italiano, l’attenzione va ovviamente spostata sul valore quantitativo del possibile cambiamento, cercando di interpretare come e quanto l’impatto graverà sugli investimenti web del nostro paese. 

Che già di per sé languono, nel senso di concentrati in poche mani (200 aziende fanno l’80% di quel mercato) e in poche quote (l’11% rispetto al 51% della tv, nonostante il 15% di crescita). Tanto che il presidente Iab Roberto Binaghi (per la prima volta sul palco nella veste di paladino internet, avendo prima del nuovo incarico spesso difeso a spada tratta la tv) ha inteso sottolineare la necessità di crescita. Lasciando da parte voli pindarici (in Italia gli iPad venduti a oggi sono 300.000, contro i 3 milioni Usa), si è puntato dritto al sodo, in nome di quanto può da subito sollecitare a spendere di più, anziché teorizzare un cambiamento che fornirebbe alibi per l’attesa

Ma facciamo il punto della situazione. Siamo a 1.000 milioni di euro investiti, guadagnati soprattutto erodendo spazio agli altri media, visto che oggi per taluni internet non è più solo integrazione, ma anche alternativa. Considerando il solo andamento inerziale, si ipotizza un incremento cumulato del 50% degli investimenti nei prossimi tre anni (si stima che l’advertising in generale segnerà un +12%), arrivando a 1,5 miliardi, a quota 15% (consideriamo che negli Usa vale già il 15%, Uk il 30%, Germania 18%, Francia 16% e Spagna 13%). Non un gran che rispetto al mondo, ma purtroppo subiamo la carenza di infrastrutture (la penetrazione è del 52,1%, in Uk del 82,5%), la carenza di punti d’accesso Wi-Fi (solo 4.000 contro i 75.000 Usa), l’estraneità alla rete della fascia over 55. 

Nonché problematiche legate prettamente al mercato degli investitori, tra cui la percezione degli investimenti sul web e il gap informativo. Solo il 15,8% degli utenti pubblicitari contempla anche la rete (comunque vi ci impegna una quota bassa, in media il 17%) e l’8% di loro (circa 200 aziende) fa l’80% del valore. Soprattutto telco, finanza e assicurazioni, automotive, toiletries. Quasi assente alimentare e largo consumo, basti pensare che il 90% delle aziende di bevande e alcolici non pianifica. 

Non stupisce, dunque, la propensione Iab a capitalizzare. Dal fronte di chi dell’advertising online fa il suo business, infatti, la tentazione di guardare al futuro (potenziale ‘pubblicitario’ dei social network, smartphone e tablet) è frenata dalla necessità di portare a casa quanto altrove è già consolidato. Identificando driver nella formazione (la conoscenza deve permeare, soprattutto ai piani alti, perché in abito web non vale la logica delle botteghe d’arte, dove l’anziano più esperto poteva insegnare al nuovo), nell’integrazione multimediale, nel rapporto tra domanda e offerta, nelle metriche, nei formati, nella profilazione dei target. Ma siamo così certi che il nuovo debba obbligatoriamente passare di lì?

 

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