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Gabriele Qualizza, docente all’Università di Udine e alla Cattolica di Milano ed esperto pubblicitario
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Non solo campagne, l’era della partecipazione comunica con spazi e relazioni

22/10/2010

Prima di leggere, fate un giro per le vostre sedi. Nonostante in molti ancora non lo sappiano, infatti, è da lì che respira la strategia delle aziende, definendo quanto riassunto nel concetto di ‘impresa estesa’. Pensiamo a NikId, uno spazio fisico e virtuale dove il consumatore può personalizzare la propria sneaker. O al rivoluzionario Esloultimo a Barcellona, un punto vendita club per far testare ai consumatori i prossimi lanci sul mercato. E se il tempo del consumo si appropria del tempo del lavoro, intervenendo nella stessa fase di ideazione e produzione, altrettanto fa quest’ultimo, aprendosi allo svago. Immaginando sia giunta l’era dei cosiddetti ‘third place’, ossia spazi intermedi tra la casa e l’ufficio, ove incontrare persone, conversare e interagire, mettere in comune conoscenze, informazioni, condividendo emozioni e intuizioni. Ne è esempio la nuova sede Google di Zurigo, e non è l’unico.

Come a youmark racconta Gabriele Qualizza, docente all’Università di Udine e alla Cattolica di Milano ed esperto pubblicitario, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro ‘Transparent factory. Quando gli spazi del lavoro fanno comunicazione’, edito da Franco Angeli.


I luoghi di lavoro per comunicare: da spazi fisici a piattaforme di incontro e di relazione. Google, Volkswagen, Nike e Microsoft sono già avanti. Cosa significa a livello strategico una scelta di questo tipo?
“Lo spazio del lavoro non va più considerato come semplice packaging, contenitore, fondale di palcoscenico indifferente alle azioni che si svolgono al suo interno. Lungi dall’essere riduttivamente deputata a rappresentare l’immagine aziendale, la struttura fisica assume una valenza strategica. Aiuta i dipendenti a realizzare i compiti loro affidati e a raggiungere gli obiettivi di business dell’impresa; incoraggia l’interazione tra i dipendenti e tra questi e gli interlocutori esterni all’azienda; offre un contributo decisivo per l’elaborazione dei significati e dei valori attribuiti al brand, segnalando il posizionamento e le competenze distintive dell’impresa; svolge il ruolo il ‘collante’ organizzativo, proponendosi come riferimento simbolico, mediante il quale tenere insieme una molteplicità di stakeholders, tanto interni quanto esterni all’azienda”.

Sempre più, il fine non è solo creare un ambiente di lavoro più consono, quanto ingaggiare il consumatore finale a livello di processo produttivo. Insomma, un allargamento dell'ottica 2.0 e della co-creazione all'off line, all'architettura, all'edilizia?
“Il presupposto è il nuovo concetto di ‘impresa estesa’: una realtà dai confini mobili e cangianti, che dilata i propri orizzonti oltre i ‘cancelli’ della fabbrica, integrando nel processo progettuale e produttivo i consumatori finali, accanto a fornitori, partner in affari e investitori. 

Un primo esempio è NikeId, spazio - fisico e virtuale insieme - nel quale il consumatore ha la possibilità di mettere a punto una sneaker personalizzata. Un altro esempio è Esloultimo, aperto di recente a Barcellona. Esteriormente si presenta come un punto vendita. In realtà, è un ‘club’ ad accesso limitato, ove clienti selezionati possono offrire il proprio contributo ad attività di ricerca e sviluppo, testando con largo anticipo nuovi concept di prodotto, prima che vengano ‘industrializzati’ e successivamente lanciati sul mercato. 

Il corollario è il superamento della contrapposizione tra sfera della produzione e sfera del consumo. Le due attività finiscono per confondersi e per sovrapporsi, dato che il valore e il significato del prodotto, così come le sue specifiche prestazioni, si costruiscono con la collaborazione del consumatore finale, investito del ruolo di interprete-fruitore. Il tempo del consumo diventa dunque una sorta di prolungamento del tempo di lavoro. Nel tempo del lavoro, per converso, si introducono dinamiche caratteristiche del tempo libero, come il dono, il gioco, la convergenza festosa della mente e dei sensi. 

Non a caso, secondo Tom Davenport, l’ambientazione più adatta al lavoro dei knowledge workers potrebbe essere un coffee shop Starbucks. Una sorta di ‘third place’, uno spazio intermedio tra la casa e l’ufficio, ove incontrare altre perso¬ne, conversare e interagire, mettere in comune conoscenze e in-formazioni, condividere emozioni ed intuizioni. 

Si avvicina a questa logica la nuova sede di Google a Zurigo: la struttura comprende un ristorante, alcuni bar, spazi ricreativi con tavoli da biliardo, una biblioteca con caminetto, una nursery per i figli dei dipendenti, un giardino esterno. Tutto ha un’aria informale: i meeting vengono organizzati in piccole salette somiglianti ad igloo. Oltre che al tavolo da ufficio, equipaggiato con le più evolute tecnologie, gli impiegati possono sedersi su un’amaca per riposarsi o per lavorare in tutta tranquillità con il proprio laptop. Cabine a forma di uovo e di funicolare offrono spazi di relax per momenti di privacy”.


Quale delle case history citate dal suo libro l'ha stimolata di più e perché?
“Mi ha molto colpito il caso di Brunello Cucinelli, un imprenditore che può essere accostato alla figura di Adriano Olivetti. La sua impresa, dedicata alla lavorazione del cashmere, con un prodotto che si inserisce ai più alti livelli nel mercato dell’abbigliamento sport-chic, ha sede a Solomeo, sulle colline vicino a Perugia: un antico borgo, riportato allo splendore di un tempo dopo un attento lavoro di restauro. Gli ambienti di lavoro sono particolarmente suggestivi: stanze calde ed accoglienti con travi a vista, finestre che guardano sulle colline, caminetti, affreschi, pavimenti in cotto. Il borgo si propone anche come luogo d’incontro, con la presenza di un teatro e di altri spazi di offerta culturale per il territorio. 

Il risultato è un originale esperimento di ‘impresa umanistica’. I collaboratori sono motivati con stipendi del 20 per cento più elevati rispetto agli standard previsti nel settore tessile, non ci sono cartellini da timbrare, le relazioni sono aperte ed informali, si cerca costantemente di realizzare un equilibrio tra lavoro e tempo libero. Anche la qualità della vita, la dimensione degli effetti e il mondo personale di chi lavora sono valori da salvaguardare”.

Se gli spazi diventano comunicazione, significa che la loro definizione dovrebbe rientrare tra i compiti di chi ragiona strategicamente la comunicazione delle aziende, dunque delle agenzie? I casi citati, come hanno proceduto nelle realizzazione, opera di architetti o di un team multidisciplinare?
“Sicuramente, sarebbe auspicabile un gioco ‘a più voci’, nel quale convergano le competenze del designer, dell’architetto, del sociologo, del consulente di comunicazione, dell’esperto di psicologia ambientale. Più in generale, sarebbe utile ribaltare l’approccio tradizionale, focalizzato esclusivamente sui ‘costi’ di queste operazioni, per valutare invece i positivi ritorni che si possono ottenere in termini di benessere organizzativo, motivazione del personale, coerenza delle strategie di comunicazione, risultati economici dell’impresa”.

A fronte delle eccellenze citate, qual è la situazione dei luoghi di lavoro in italia, quanto tempo passerà prima che gli spazi vengano considerati parte integrante della comunicazione d'impresa, dunque da attivare a più livelli?
“In effetti, molte aree industriali e per uffici si presentano come altrettanti ‘non-luoghi’: spazi anonimi, senza forma e senza qualità, privi di particolari pregi formali e funzionali. Puri incroci di mobilità e di traiettorie. Tra le pieghe si avverte tuttavia una crescente sensibilità per questi temi. Anche nel nostro Paese, come testimoniato dal Convegno ‘Ufficio Fabbrica Creativa. The Italian Way’, svoltosi a Milano in occasione dell’ultimo Salone del Mobile. I casi di eccellenza non mancano: da Franke Italia all’incubatore tecnologico H-Farm, dal Diesel Village, inaugurato pochi giorni fa, alla nuova sede della Ferrari, dai laboratori creativi ospitati nella Fabbrica del Vapore a Milano al Saporiti Hub di Besnate. Per citarne alcuni”. 

Il green, la sostenibilità, che posto occupano in tutto questo?
"L’appello alla semplicità, che caratterizza l’etica green può essere declinato in due sensi: per un verso, come sinonimo di naturalezza e spontaneità, vitalità, dinamismo ed energia, alternativa a tutto ciò che è contorto e complicato. Un approccio che sembra riecheggiare nel progetto Stand up for simplicity, proposto da GasJeans. Per un altro verso, come segno di una complessità ben risolta. Come suggeriva il designer Bruno Munari, ‘per semplificare bisogna togliere’, come fa lo scultore che a colpi di scalpello estrae un’opera d’arte da un blocco di marmo, asportando un po’ alla volta tutto il materiale che c’è in più. 

In ogni caso, la semplicità si arricchisce di nuovi sensi: piacere ritrovato di un ritmo di lavoro più umano, atteggiamento sperimentale, disponibilità all’ascolto, possibilità di coltivare il pensiero laterale per generare innovazione. Sullo sfondo si avverte la riscoperta dell’estetica, che ridiventa capacità di percepire con tutti i cinque sensi: il corpo, con la sua storia e con le sue trasformazioni, riacquista diritto di cittadinanza, diventa l’unità da cui partire per misurare il benessere e la qualità della vita. Anche nei luoghi di lavoro”.

 

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