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‘Meeting the change’ AssoComunicazione, tutto dipende dalle aspettative

26/02/2009

Possiamo osare la più indegna delle banalizzazioni? Nulla il governo italiano da solo può fare per uscire dalla crisi. Perché a livello macroeconomico nessun paese può efficacemente agire in un’economia globalizzata. Sarebbe come pensare di cambiare il corso del mare buttandoci alcune gocce d’acqua. Diverso il caso di un’alleanza che pesi a livello di Pil globale, insomma di un accordo europeo, ma al momento sembra alquanto difficile. A livello locale, dunque, all’Italia non resta che la sfida dell’efficienza della macchina pubblica e dell’equità. E se la comunicazione altro non è che un servizio, una leva che favorisce e agevola, ma non certo il motore della ripresa, allora forse anche a lei non resta che la via del ripensamento in nome dell’ efficacia. 

Urge una spiegazione. Si tratta della riflessione seguita al primo incontro della serie ‘Meeting the change’ a firma AssoComunicazione, ieri a Milano, che ha visto Giacomo Vaciago, Professore Ordinario di Politica Economica e Direttore dell’Istituto Economia e Finanza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, proporre il suo intervento sul tema 'La comunicazione dopo la crisi'. In realtà si è parlato a lungo di crisi. Poco del dopo, meno ancora di comunicazione. Ma questa è un’altra storia. Della quale peraltro youmark ha chiesto conto a Fidelio Perchinelli, direttore generale AssoComunicazione, confermando il ruolo gregario che il comparto gioca a livello italiano, perché leva non motore di crescita, perché non così consistente nei numeri e perché perlopiù costituito da piccole e medie imprese che, alla stregua di quanto succede per il nostro settore industriale, hanno più di una difficoltà ad approdare in altri mercati. Senza dimenticare la fatica a fare sistema, limitando non poco la possibilità di costituire massa critica, dunque di esprimere rilevanza. 

Ma torniamo alla crisi. Perché in un certo senso nelle sue cause la comunicazione c’entra eccome. Come in tutte quelle che l’hanno preceduta, infatti, anche l’attuale dipende dallo stato delle aspettative. Il problema è che, non essendoci buone notizie da annunciare, la ripresa langue. E per Vaciago continuerà a mancare per almeno tre anni, seppur con l’ottimismo di chi sa per certo che a un certo punto arriva. 

Non si conoscono le soluzioni, non si riesce a capire quale mondo vada costruito per rimediare al presente, che ha perso la sua stabilità. E lì sta l’inghippo. Se la rivoluzione keynesiana, sostenendo la necessità dell'intervento pubblico nell'economia, con misure di politica fiscale e monetaria che garantissero la piena occupazione, ove la domanda aggregata non fosse sufficiente allo scopo, riuscì a riportare stabilità, altrettanto servirono le teorie di Milton Friedman, premio Nobel per l’economia nel 1976, ai fini dell’inflazione, attraverso il conseguimento del controllo della crescita della massa monetaria. 

Oggi la questione riguarda una terza dimensione dell’instabilità. Quella finanziaria. Il punto è capire come risolverla. Ossia capire come fare perché l’assunzione eccessiva di rischio che le banche si sono nella nostra era permesse non possa ripetersi. Servono riforme che vadano in questa direzione, ma le proposte languono. E con esse le aspettative. Dunque la ripresa. Evitando l’errore del protezionismo, sostenendo i vantaggi dell’internazionalizzazione, seppur ricercando una globalizzazione più ordinata e stabile.

 

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