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da sinistra: Giuseppe Roma, direttore Censis; Albino Gorini, consigliere Cnel e moderatore del convegno; Giuseppe De Rita, presidente Censis
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44° Rapporto Censis: la crisi non è economica, ma sociale. La stampa soffre, si legge online

09/12/2010

Per un’Italia appiattita, che stenta a ripartire. Metabolizzata la crisi economica, infatti, è adesso l’ora di pensare ai valori, con conseguenze che vanno dal disinvestimento dal lavoro all’allarme giovani, dalla despecializzazione produttiva alla mancanza di innovazione. Ma il Paese tiene grazie a intrecci virtuosi, welfare mix e reti di imprese. Con il compito più duro affidato ai media, esortandoli a un’autocoscienza di massa che richiami alle responsabilità sociali. Perché solo un popolo di spessore intellettuale e morale può far ripartire lo sviluppo. Sul fronte dei media, infine, è l’online che traina.

Mentre nel resto del mondo la ricetta per uscire dalla crisi prevede l’attivazione di tutte le energie professionali e l’auto-impreditorialità, l’Italia - già patria del lavoro autonomo e della micro impresa - ha visto ridursi negli ultimi anni proprio la componente del lavoro non dipendente. 437mila imprenditori e lavoratori in proprio (artigiani e commercianti) in meno dal 2004 (-7,6%), registrando una sostanziale stagnazione del commercio (le imprese crescono  dell’1,4%, gli occupati dello 0,9%), causata della forte contrazione del piccolo commercio al dettaglio.

Nei primi due trimestri del 2010 si è registrato poi un calo del 5,9% degli occupati tra i 15-34 anni. Poco fiduciosi nella possibilità di trovare un’occupazione, ma anche poco disponibili a trovarne una a qualsiasi condizione, i giovani hanno avvertito più degli altri gli effetti della crisi. In 2.242.000 non studiano, non lavorano, né cercano un impiego. Più della metà degli italiani (55%) pensa che i giovani non trovino lavoro perché non vogliono accettare occupazioni faticose e di scarso prestigio. Una valutazione che potrebbe apparire ingenerosa e stereotipata, se non fosse che ad esserne convinti sono gli stessi giovani.

Negli ultimi dieci anni il tasso di crescita dell’economia italiana è stato più basso che in Germania, Francia e Regno Unito, fatto aggravato oggi dal rischio di despecializzazione imprenditoriale. La quota del nostro export è passata dal 3,8% al 3,5% e se è migliorato il nostro posizionamento per prodotti quali articoli di abbigliamento, macchinari per uso industriale e alimentari, abbiamo perso terreno nei comparti a maggiore tasso di specializzazione, dalle calzature (-3,8%) alla gioielleria (-4,3%), dai mobili (-4,7%) agli elettrodomestici (-5,8%), ai materiali da costruzione (-13,7%). Il pericolo è che strategie di nicchia, design e qualità non bastino più senza maggiori iniezioni di innovazione nei prodotti.

Abbiamo comunque resistito ai mesi più duri della crisi economico-finanziaria e, nonostante la fatica del vivere e le dolorose emarginazioni occupazionali (l’Italia ha perso 574.000 occupati nel periodo giugno 2008 - giugno 2010 e le imprese manifatturiere si sono ridotte di oltre 93.000 unità), abbiamo saputo sviluppare gli anticorpi alla nostra stessa malattia, attivando intrecci virtuosi. Nel 2010 sono state varate molte misure di incentivo alla costruzione di forme di collaborazione tra imprese, mostrando l’aumento di dialogo tra tessuto produttivo, enti di formazione, strutture di ricerca, centri servizi. L’irrobustimento delle reti fra pmi si intreccia ai continui aggiustamenti del welfare-mix, con le famiglie, pilastro strategico del welfare, a farsi carico di compiti assistenziali, sopperendo ai vuoti del sistema pubblico.

Infine, l’accelerazione tecnologica e l’evoluzione dei media ha reso la triangolazione ‘famiglie, media, sistema’ sempre più complessa. Sulla fronte dei media, inoltre, emerge nettamente la crisi della carta stampata a favore dell’online. Nel dettaglio, seppur ammettendo sovrapposizioni, dunque lettori sia in rete che su carta stampata, quelli online oggi raggiungono già il 19,6% per Repubblica, il 18,2% per Il Sole 24Ore, il 15,1% per il Corriere della Sera.

“Al di là dei fenomeni congiunturali economici e politico-istituzionali dell’anno, c’era bisogno di una verifica di cosa è diventata la società italiana nelle sue fibre più intime”, ha affermato Giuseppe De Rita, presidente Censis, in occasione, lo scorso venerdì a Roma, della presentazione del 44° Rapporto Annuale sulla Situazione Sociale del Paese 2010. “Sono evidenti le manifestazioni di fragilità sia personali che di massa. Comportamenti indifferenti, cinici, passivamente adattivi, prigionieri delle influenze mediatiche e della cattiva comunicazione, insieme ad uno stato diffuso di insicurezza generale. Si sono appiattiti i nostri riferimenti alti e nobili, soppiantati dalla delusione per gli esiti del primato del mercato, della verticalizzazione e personalizzazione del potere, del decisionismo di chi governa, che hanno mandato in crisi la nostra dimensione individuale e sociale. E una società appiattita fa frenare verso il basso anche il vigore dei soggetti presenti in essa. Perciò vi è la necessità, per far ripartire la marcia dello sviluppo, di recuperare spessore e vigore adeguati alle sfide che dovremo affrontare.”

Dal nostro corrispondente a Roma Francesca Mautone

 

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